Francesco Vezzoli, C CUT Homo Ab Homine Natus
meanwhile

Passato perfetto

di Alessia Delisi - Novembre 8, 2018

All’antichità si mostra interessata molta arte italiana dei nostri giorni. Se a Torino Francesco Vezzoli sembra apprezzare ritorni, riusi e tradimenti realizzati in epoca romana, a Milano Giulio Paolini si fa portavoce di una classicità atemporale e ibrida.

Da sempre gli artisti si sono guardati indietro per elaborare mitologie capaci di interpretare l’attualità, a volte per condizionare studi e ragionamenti sull’arte, altre volte per scrollarsi di dosso il passato e altre volte ancora con obiettivi politici o per il puro gusto del gioco e della provocazione. Se l’arte dei greci e dei romani ha condizionato la produzione artistica di epoca rinascimentale e barocca, è ancora a quest’arte che, con motivazioni e obiettivi differenti, si mostrano interessati molti artisti vicini a noi. Francesco Vezzoli ne è un esempio: la mostra C–CUT – Homo Ab Homine Natus, ospitata fino al 12 gennaio negli spazi della Galleria Franco Noero di Torino, si compone di un’opera che porta alle estreme conseguenze quella pratica del pastiche impiegata dall’artista fin dall’inizio della sua produzione scultorea.

Francesco Vezzoli. C CUT Homo Ab Homine Natus

Realizzata a partire da una scultura da giardino del XX secolo che rappresenta un milite romano, l’opera rielabora e risignifica storie e cose liberamente prelevate dal repertorio dell’arte classica. Era infatti abitudine diffusa, in epoca romana, copiare le opere greche senza distinguerle dall’originale e anzi inserendo elementi legati all’attualità in cui vivevano l’autore della copia e il suo committente. Allo stesso modo Vezzoli avvicina teoricamente passato e presente inserendo sulla schiena di questo finto antico un “taglio” in bronzo – e qui, è proprio il caso di dirlo, ci viene in mente Lucio Fontana – dal quale fa capolino una testa di uomo risalente al periodo tardo repubblicano. Mentre la scultura gira su se stessa come un inquietante carillon, lo spettatore è chiamato ad assistere a un parto in cui il passato viene alla luce squarciando violentemente il presente. Esso è non solo custodito, ma anche visto con gli occhi di oggi; appartiene a un tempo che vuole dialogare con lui deformandolo, come del resto tutte le epoche hanno fatto, ciascuna secondo la propria cultura artistica, con esiti spesso magnifici.

Giulio Paolini, del Bello ideale, 2018 @ Fondazione Carriero, Milano, ph. Agostino Osio

Volgere lo sguardo indietro, vivere il passato al presente, facendone una componente della propria formazione e ispirazione, nonché un imprescindibile fattore identitario, è del resto una caratteristica di molti artisti del nostro paese. Qualcuno lo ripescherà da posizioni periferiche del pensiero o lo incontrerà di tanto in tanto, in altri affiorerà costantemente alla memoria, fino a diventare una frequentazione abituale. È questo il caso di Giulio Paolini, in mostra alla Fondazione Carriero con del Bello ideale che fino al 10 febbraio ne ripercorre la carriera, esponendo i capisaldi della sua produzione.

Dislocata sui tre piani della fondazione, uno per ogni nucleo tematico affrontato, l’esposizione rivela come mito e classicità siano per l’artista emblemi di bellezza formale, il modello di perfezione a cui aspirare (come già era stato per il “pictor classicus” Giorgio de Chirico e la sua pittura metafisica). In questo senso l’arte non appartiene soltanto al suo immaginario, ma è qualcosa di universale, che affonda le radici nel permanere della Grecia come paesaggio interiore, come metafora e insieme come linguaggio ibrido. Non a caso Paolini ha più volte sostenuto che l’artista non è autore della sua opera, la quale gli è in qualche modo preesistente, ma di quell’opera è soltanto attore e quindi portatore della sua rappresentazione. Nel gusto della ripetizione e nell’ambiguità del doppio è allora il sentimento della classicità di Paolini, ma dietro questa facciata geometricamente ordinata si nasconde un’anima labirintica, uno spazio vuoto che supera i limiti fisici del quadro e ne scuote l’enigmatica quiete.

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Gianni Valentino