Mattia Barbieri, The Butter Monk
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Mattia Barbieri | La pittura come messa in scena

di Alessia Delisi - Maggio 24, 2019

«La mia ricerca si sviluppa per serie; si articola, soprattutto per quanto riguarda la pittura, raccontando la storia di un gesto. Ciò che accomuna le varie serie è la riflessione, sempre presente, sulla natura dell’immagine, nel senso che ogni volta faccio mio il tentativo di mostrare una rappresentazione della pittura». Con queste parole dal sapore enigmatico si apre la mia conversazione con Mattia Barbieri, pittore – ma sarebbe più appropriato parlare di metapittura – la cui opera si appropria, rivisitandola, di una vasta tradizione artistica che dal Quattrocento arriva ai giorni nostri. Giustapponendo all’interno dello stesso quadro diverse tecniche e differenti soggetti, l’artista cancella le gerarchie, preparando il campo a una pittura che ha la forza e la pretesa di mettersi in scena da sé. Ma andiamo con ordine. Mattia Barbieri nasce a Brescia nel 1985, «il 10 luglio per l’esattezza, come Giorgio De Chirico, Marcel Proust e Camille Pissarro», precisa. Nello stesso anno il nonno comincia a dipingere e questo è un fatto rilevante, perché fa sì che il piccolo Mattia sperimenti la pittura liberamente ed en plein air. Un’influenza significativa sulla formazione dell’artista che, dopo gli studi grafici – «mi piaceva l’idea di imparare a elaborare un messaggio preciso» – sceglie l’Accademia di Brera, dove consegue il diploma di laurea di primo e secondo livello in Arti Visive. Sono anni importanti, in cui inizia una collaborazione con diverse gallerie, come la Federico Luger di Milano e la Galleria 42 Contemporaneo di Modena. Grazie a questo già ricco curriculum, ottiene l’O–1 visa per straordinarie abilità e nel 2015 arriva a New York. Lo scorso gennaio ha inaugurato la sua seconda personale alla Pablo’s Birthday Gallery di Manhattan con il progetto The Butter Monk.

Mattia Barbieri, Tango for the Shadow

A.D.: Cosa rappresenti con la tua pittura?

M.B.: La pratica pittorica risponde per me a un istinto naturale e al tempo stesso coincide con un processo mentale, concettuale. Quando ad esempio dipingo un paesaggio all’interno di un’area confinata del quadro, la mia intenzione è aprire un’ulteriore finestra, offrire lo sguardo di uno sguardo per raffigurare l’idea stessa di pittura. Ogni volta cerco di far corrispondere l’azione pittorica con il soggetto rappresentato. Ho anche elaborato differenti tecniche per questo. Il fil rouge è comunque sempre la riflessione sull’immagine e il suo rapporto con il reale. Prendi la serie degli scotch ad esempio: la mia intenzione qui era mettere in scena in modo non gerarchico diversi soggetti pittorici, cancellandoli e riformulandoli in una sorta di mise en abyme. Le screziature che vedi sullo sfondo sono ottenute dalla combinazione di prodotti chimicamente incompatibili tra loro, un po’ come la pioggia, che è il risultato dello scontro tra due nuvole. Lo stesso avviene nell’ultima serie, intitolata The Butter Monk, dove mi sono ispirato all’arte giapponese dell’ikebana. Le opere sono infatti dei collage di dipinti a olio, realizzati quindi seguendo la stessa tecnica compositiva che caratterizza questa tradizione. Ecco cosa intendo quando dico che cerco un allineamento tra l’azione e ciò che rappresento.

Mattia Barbieri, New Metaphysics

A.D.: Come nasce invece la serie degli iPhone?

M.B.: New Metaphysics equivale per me a un motto di spirito tra gentiluomini colti che sanno perfettamente di cosa stanno parlando. L’ho realizzata estrapolando e rielaborando alcuni generi pittorici come la Metafisica, il Realismo magico, la natura morta di matrice nordeuropea e il paesaggio lombardo–veneto presente in Tiziano, Cima da Conegliano, Giorgione. Lo scenario mostrato nella maggior parte di questi iPhone si ispira poi al frammento di un dipinto di Albrecht Dürer, mentre le bacchette di legno – protagoniste anche di una serie appena precedente – sono ironicamente la rappresentazione del segno digitale che in questo modo si oggettivizza e da digitale diventa analogico, trasformandosi quindi in un pezzo di legno del Quattrocento posizionato all’interno di una nicchia. Si tratta anche qui di una messa in scena praticata con assoluto distacco, di un’interazione con la grammatica della pittura che ogni volta ne scombina la sintassi. Quanto alla disposizione d’animo, non c’è premeditazione nel mio fare, nessun progetto, nessun disegno preparatorio. C’è semmai un’azione diretta, come quella di un samurai, che si pone di fronte al quadro con la puntualità del momento presente e l’apertura assoluta che il gesto che va compiendosi comporta.

A.D.: Quali sono i tuoi riferimenti?

M.B.: Sono un appassionato e sincero amante dell’arte e quando guardo un’opera tutto intorno a me è silenzioso, perché la mia attenzione è focalizzata in maniera assoluta. Ho sicuramente delle preferenze che riconduco ad autori antichi, ma considero l’arte nel suo complesso, come macchina umana. È una sinfonia corale che da individuo percepisco come un’orchestra.

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